venerdì 18 settembre 2015

"Isis recluta anche a Milano. ​E il terrore corre su internet"

La super poliziotta Cristina Villa che comanda l'Antiterrorismo conferma la grande pericolosità del "fondamentalismo islamico"

E chi ha la responsabilità delle strutture ha tutto l'interesse a evitare che certe persone le frequentino, perché si troverebbero nell'occhio del ciclone e, dal punto di vista amministrativo, perderebbero le autorizzazioni. Tanto per intenderci: chi si affilia all'Isis, come quei due ragazzi italiani partiti a gennaio da Vimodrone per la Siria, in moschea, se ci va, lo fa solo per pregare».
Insomma il suo è un via libera alla costruzione di una nuova moschea sotto la Madonnina.
«Senta: è dal 2008, cioè da quando abbiamo arrestato i due nordafricani che frequentavano l'associazione islamica “Pace Onlus” di Macherio che in un'indagine non entrano le moschee. Io credo che i coacervi del fondamentalismo deviato, quello che odia e uccide per intenderci, oggi nascano altrove, magari su internet. Dalle moschee a Milano - dove esistono 15 associazioni islamiche in città e una ventina in provincia - la nostra squadra “Comunità straniera” ha la collaborazione più ampia perché chi le frequenta, e non è costretto - ad esempio - a pregare in uno scantinato, si sente sicuramente più integrato. E non aggiungo altro».
Sorride Cristina Villa, vice questore aggiunto e funzionario capo della sezione antiterrorismo della Digos di Milano. Certo non ammetterà nemmeno sotto tortura che ormai la «collaborazione più ampia» da parte delle associazioni islamiche di cui parla significa una buona rete di collaboratori della polizia. Che si serve di loro, ad esempio, quando c'è da «attenzionare», come si dice in poliziese, qualche soggetto sospetto.
Sarebbe anche pronta ad affermare che l'Isis a Milano non recluta, che non ha appeal?
«No, questo non posso dirlo perché non sarebbe vero. Le nostre ultime indagini hanno dimostrato esattamente il contrario. Maria Giulia Sergio e la sua famiglia; il pakistano e l'algerino pronti a mettere a segno un attentato, l'ormai arcinoto fighter Francesco, cioè il tunisino che aveva lavorato in una pizzeria del centro di Milano ed è stato ucciso a febbraio nel Kurdistan o, come ho già detto, i due ragazzi di Vimodrone partiti per la Siria a gennaio».
Qualcun altro?
«Sì, ma tenga presente che la situazione di Milano è davvero molto controllata».
È anche vero che a Milano, nell'ottobre del 2009, abbiamo avuto il precursore della figura del lone wolf dell'Isis...
«Sì, Mohamed Game, il libico che aveva cercato di farsi saltare in aria all'ingresso della caserma Santa Barbara di piazzale Perrucchetti. In questo senso era già avanti: studiava su internet, si era fabbricato una pipe bomb in pochi mesi pur non avendo nessun genere di conoscenza specifica visto che era stato titolare di un'impresa edile. Game studiava sul manuale “Appello alla resistenza islamica”, un volume di un migliaio di pagine scritto da Abu Musab al Suri, uno dei primi teorici del lupo solitario dell'Isis».
In poche parole?
«Se hai un obiettivo da realizzare lo puoi fare ovunque ti trovi, con i mezzi che hai e soprattutto senza appartenere a una struttura organizzata».
Lei parla d'integrazione. Tuttavia Marianna Sergio (sorella di Maria Giulia-Fatima, la foreign fighter che incitava la famiglia, poi arrestata a Inzago, a raggiungerla in Siria, ndr) una volta in questura, disse che nessuno dei suoi interlocutori avrebbe potuto capirla perché non avevano «abbastanza fede».
«Sì, ma il dialogo non ci può essere con chi pretende di portarti dalla sua parte attraverso la violenza, qualunque religione professi. Non stiamo parlando di musulmani moderati che cercano di convertirti al loro credo con un lavoro quotidiano di esempio. Parliamo di persone assolutamente intransigenti che non accettano alcun tipo di confronto».
È per questo secondo lei che la gente anche a Milano ha tanta paura dell'Isis?
«È più che legittimo che ci sia della preoccupazione. Quindici anni fa eravamo tutti aperti al nuovo. Il grande spartiacque, inutile sottolinearlo, lo ha segnato l'11 settembre. E, più recentemente gli attentati di Parigi. Così se prima si poteva pensare a un'integrazione più veloce, ora si fa un passo alla volta. E con grandi difficoltà».

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