di Gianluigi Paragone
Più volte abbiamo scritto sull’importanza dei simboli in politica. Per mesi ce la prendemmo col governo Monti così insensibile da non partecipare mai ai funerali di uno solo degli imprenditori suicidati per colpa della crisi economica. Scrivevamo che così facendo si rafforzava il muro tra palazzo e cittadini.
Da mesi scriviamo che la crisi impone alla politica un atteggiamento meno presuntuoso, meno distante, più aperto al dialogo: leggere ancora che un alto dirigente del senato se ne va in pensione, grazie anche alle prebende di consigliere di Stato, con una cifra che è tre volte quanto prende il presidente della Repubblica, manda in bestia. Ecco, di esempi così ce ne sono parecchi e tutti riconducono all’importanza dei simboli in politica.
Questa non breve introduzione mi era d’obbligo per domandare al ministro dell’Integrazione Cecile Kyenge perché non ha ritenuto opportuno partecipare, ieri, ai funerali dei tre uomini barbaramente uccisi dalla follia di Kabobo. Non entrerò nelle polemiche politiche che hanno fatto e stanno facendo da contorno alla nomina del primo ministro nero (anche perché alcune di queste hanno autentiche ventature razziste), né entrerò nel merito della proposta sullo ius soli anticipate dalla stessa Kyenge, non foss’altro perché – secondo me – oltre l’annuncio ci sarà il nulla.
Mi limiterò invece a girare alcune considerazioni, nell’illusione di una risposta da parte del ministro. Intanto la follia omicida non ha colori di pelle, né dipende dal diritto di cittadinanza: giustappunto ieri una madre italiana ha gettato dalla finestra alta sette metri i suoi due figli. Ci sono ombre di nero con cui siamo e saremo costretti a convivere. La folle notte omicida di Kabobo non fa eccezione. Poteva essere fermato? Non doveva essere in Italia? Le domande si moltiplicano e quasi tutte resteranno senza una risposta azzeccata. Resta quell’atroce gesto e resta la rabbia e il dolore dei familiari.
Da ogni fatto, anche da questo tragico, si può estrapolare un senso politico. Che la signora Cecile ritenga più saggio arrivare a una maggiore integrazione degli immigrati attraverso il diritto dello ius soli, quindi modificando quasi radicalmente il meccanismo di cittadinanza finora in uso, è un suo diritto di donna impegnata in politica; che lo possa fare in un governo di larghe intese nato dalla necessità di trovare risposte politiche per contenere i danni della crisi economica (ero sul punto di usare un’altra espressione e cioè nato per rilanciare l’economia italiana, ma mi sembrava davvero eccessivo) è invece un’opinione. La questione insomma resta aperta e necessita di un confronto aperto, programmatico e preliminare, coi cittadini, o attraverso le elezioni (nel senso che si sceglie il partito con una proposta o un’altra) o attraverso un referendum. Non è il nostro caso. Si discute solo per effetto di una dichiarazione. La quale sfortunatamente è arrivata pochissimo tempo prima del grave fatto di cronaca che ha visto coinvolto un cittadino extracomunitario, clandestino.
Come dicevamo, delle vittime di Kabobo è stato celebrato ieri il funerale. Mi sarebbe piaciuto vedere il ministro per l’Integrazione in chiesa a Milano. Sarebbe stato uno di quei simboli che riportano le discussioni coi piedi per terra. Essere lì avrebbe tradotto in un fatto la parola integrazione. Essere lì avrebbe significato che al di là di come la si pensi sul tema c’erano tre famiglie da consolare. Essere lì avrebbe svuotato ogni dibattito pretestuoso e fazioso. Essere lì, infine, avrebbe significato che la politica può non avere sempre barriere. La presenza delle istituzioni in certi momenti significa che lo Stato ha un volto, significa che lo Stato si mischia ai suoi cittadini.
L’integrazione è un percorso lungo e difficile. Non credo che un tipo di legge la possa facilitare e soprattutto non credo nemmeno che la retorica – in un senso o nell’altro – faciliti suddetto processo. Di solito si afferma che l’integrazione è un percorso culturale e sociale assieme. Certo che lo è, ma poi è nella quotidianità che si misurano le attitudini alla convivenza. Le classi dei nostri figli sono sempre più multirazziali e multiculturali: la loro autocapacità di prendersi vicendevolmente le misure è la migliore lezione possibile. Nei campetti sportivi non si dividono tra bianchi e neri, tra comunitari ed extracomunitari, eppure in quelle squadre c’è un miscuglio di genti diverse: al limite si dividono tra compagni di classe o fanno comunella con l’amico più simpatico.
Ricordo sempre la strofa di «Un’idea» di Gaber laddove si prende in giro la modernità di un progressista la cui figlia sposò un uomo di colore e lui non riuscì più a dormire. Quella strofa è la didascalia di una generazione in via di superamento. C’è una integrazione che ha già cambiato il passo.
Quali regole si dovranno scrivere? Le regole del buonsenso in primis. Poi, certo, la politica qualche scelta la dovrà fare, evitando gli strappi. Resto convinto che si debba tendere alla massima integrazione possibile e che una comunità ha un imprinting dominante (per la somma delle tradizioni, non certo per chissà quale vocazione) e che su quell’imprinting si possono sommare esperienze diverse. Nessuna legge troverà il giusto bilanciamento in questa contaminazione. Tocca alle comunità misurarlo e misurarsi. Esattamente come fanno i nostri figli, i quali – sul tema – sono spesso già più avanti di noi.
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