Maroni e Berlusconi si abbracciano alla fine della campagna elettorale
Roberto Maroni ha vinto la sua scommessa, personale e politica. Superando nettamente l'avversario Umberto Ambrosoli alle Regionali lombarde ha di fatto salvato la Lega Nord, uscita solo 24 ore prima fortemente ridimensionata dal voto politico in Piemonte e dilaniata dalla lotta intestina tra Flavio Tosi e Luca Zaia in Veneto. Maroni è riuscito anche in un'operazione di assemblaggio politico che fino a qualche settimana fa sembrava impossibile: ha tenuto insieme Silvio Berlusconi e la base del suo partito che pareva odiarlo, Roberto Formigoni e i leghisti che lo avevano combattuto. Bisognerà vedere se il collante terrà davanti alla prova concreta dell'amministrazione e alla suddivisione degli assessorati (a partire dalla sanità sulla quale Maroni in tv ad «Omnibus» ha detto che eserciterà una forma di controllo diretto) ma intanto il miracolo è riuscito.
Al di là delle pur decisive alchimie politiche però l'ingrediente base della vittoria di Maroni può essere tranquillamente individuato nella ritrovata sintonia del centrodestra con le categorie produttive della Lombardia, una regione composita che ospita la capitale italiana dell'innovazione, il maggior insediamento di multinazionali ma anche tanti distretti produttivi, un artigianato diffuso e di ampie proporzioni e il 16% dell'agroalimentare italiano (zootecnia e caseario). Tutti mondi, questi ultimi, che stanno vivendo con grande disagio gli effetti combinati della recessione e della pressione fiscale, della chiusura delle imprese e della perdita di posti di lavoro. Un malessere profondo che ha avuto la sua rappresentazione più efficace con i diecimila caschetti da lavoro che hanno riempito una settimana fa piazza Affari a Milano per segnalare la «morte» di quella che rimane la filiera più importante per le Pmi che lavorano sul mercato interno, l'edilizia.
È chiaro che nel dare ascolto e offrire risposte a queste comunità produttive Bobo Maroni partiva in netto vantaggio sul suo concorrente: il leader leghista è figlio di un territorio come il Varesotto dove c'è la maggiore densità europea di imprese e partite Iva in rapporto al totale della famiglie residenti. Ambrosoli sociologicamente è espressione della borghesia milanese delle professioni e per quanto si sia speso senza riserve in campagna elettorale per girare la Lombardia doveva recuperare un gap di competenze ed empatia troppo ampio. È vero che solo un anno fa lo schieramento arancione di Giuliano Pisapia aveva vinto a Milano strappando al centrodestra e a Letizia Moratti il primato dei consensi anche nel lavoro autonomo qualificato, ma non tutte le partite Iva si somigliano, l'identità politico-culturale del consulente del terziario avanzato meneghino è assai differente da quella dell'artigiano meccanico di Bergamo o del liutaio di Cremona. E di conseguenza Ambrosoli ha finito per pagare i limiti di autoreferenzialità di una certa società civile milanese e la distanza che continua a separare in Lombardia città e contado, anche dopo esserci messi alla spalle il Novecento. Non bisogna dimenticare che, se a Milano ci sono decine di consumatori che fanno la spesa anche di notte nei supermercati aperti h24, a soli dieci chilometri dal Duomo ogni estate si tengono regolarmente sagre e feste in cui la fa da padrone il ballo liscio. Modernità e tradizione convivono.
Superato con successo il test elettorale il governatore Maroni dovrà tentare di concretizzare quella che è stata la parola d'ordine chiave della sua propaganda: far rimanere in regione il 75% delle tasse versate dai residenti. Si è discusso in queste settimane a quanto potesse ammontare quest'ipotetico tesoretto e quali potessero essere gli impieghi più congrui, è rimasto in ombra il meccanismo legislativo-decisionale che dovrebbe portare la Lombardia ad adottare la rivoluzionaria proposta avanzata dal leader leghista. Secondo il parere di un esperto come il professor Luca Antonini, che per il governo Berlusconi ha presieduto la commissione tecnica per l'attuazione del federalismo, si tratta di una proposta politicamente irrealizzabile. A norme costituzionali vigenti occorrerebbe, infatti, una legge approvata dal Parlamento nazionale ma è facile pensare che avendo il centrodestra vinto in diverse regioni del Sud assai difficilmente si potrebbe coagulare alle Camere una maggioranza favorevole all'ipotesi Maroni (persino nel solo centrodestra). Perché, se passasse la clausola del 75% ai lombardi, per l'amministrazione centrale di Roma sarebbe impossibile far fronte ai trasferimenti per la sanità di diverse regioni meridionali. Quello che i tre governatori leghisti (Maroni, Roberto Cota e Zaia) possono fare per dar corpo al motivo conduttore della macroregione è adottare singole leggi regionali, consentite dall'articolo 117 della Costituzione, di coordinamento delle loro amministrazioni in materia di sostegno alle attività produttive, governo del territorio e disciplina del commercio. Non possono invece toccare la materia fiscale.
Nella veste di nuovo governatore della Lombardia Maroni dovrà lavorare da subito per rigenerare l'immagine di un'istituzione fortemente compromessadall'altissimo numero di consiglieri inquisiti (62 su 80) per un ventaglio di reati incredibili che parte dalla corruzione, passa addirittura per i rapporti con la 'ndrangheta e arriva agli illeciti commessi nell'utilizzo dei rimborsi ai gruppi consiliari. Se vorrà partire con il piede giusto il leader leghista dovrà convincere l'assemblea lombarda a rivedere le norme che consentono ai consiglieri una discrezionalità così ampia nelle spese che li ha portati a svuotare i bazar con i soldi dei contribuenti. L'onestà viene anche prima del Nord